La chiave di Sara

Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, ho avuto la fortuna di vedere “La chiave di Sara”, un film francese che narra la storia della di Sara, una bambina ebrea vittima dell’Olocausto.

A riproporci e a farci scoprire la tragedia della bambina, e con lei di tutto il popolo ebreo, è la protagonista del film, Julia, una giornalista americana che vive in Francia da vent’anni e che viene incaricata dal suo giornale di scrivere sui fatti avvenuti nel 1942 al Vèlodrome d’Hiver, luogo in cui vennero ammassati migliaia di ebrei parigini prima di essere deportati nei campi di concentramento.

Nel film ciò che per Julia era solamente materiale per un articolo si trasforma in una questione personale, in quanto scopre che la casa in cui deve trasferirsi è la stessa abitata da Sara e dalla sua famiglia prima della deportazione: questa è l’occasione per rivivere la storia tragica della bambina.

Sara, prima di essere catturata insieme ai genitori durante una retata nazista, aveva nascosto il fratellino in un armadio per non farlo trovare dai tedeschi e gli aveva fatto promettere di non uscire di lì fino al suo ritorno.

Riuscita a fuggire dal campo era tornata finalmente a Parigi nella sua vecchia casa e lì aveva trovato il fratello morto, ancora chiuso nell’armadio.

Questa tragedia segna per sempre la vita di Sara che si era trasferita in America, con la speranza di poter dimenticare ciò che le era accaduto durante la guerra.

Lì si era sposata e aveva avuto anche un figlio, ma, incapace di sopportare il suo atroce senso di colpa, si era suicidata, lasciando il bambino orfano a soli 9 anni.

Tutti questi fatti nel film vengono descritti in un susseguirsi di flashback, parallelamente con il presente della protagonista Julia. La giornalista riesce anche a ritrovare William, il figlio di Sara, che non sapendo nulla della vera storia della madre e rimasto scosso e incredulo davanti al racconto dei fatti, la allontana.

Solo alla fine del film i due riusciranno ad incontrarsi di nuovo, quando ormai William avrà accettato la dolorosa verità e Julia, diventata di nuovo mamma, deciderà di chiamare “Sara” la sua piccola, in ricordo  della tragica storia da lei stessa riscoperta e rivissuta.

La narrazione si muove dunque su due binari, tematici e temporali, paralleli tra loro, integrati dalla sceneggiatura ma allo stesso tempo ben differenziati dal punto di vista fotografico: scarne e fredde le immagini che descrivono gli avvenimenti contemporanei, dai colori seppiati quelle che raccontano la vita di Sara, come a voler avvicinare lo spettatore al suo punto di vista.

Questo film si inserisce tra i titoli che raccontano l’Olocausto ma in modo originale, affrontando il dramma della persecuzione degli ebrei attraverso un punto di vista diverso; pur non mostrando le atrocità dei campi di sterminio rappresenta ugualmente bene l’orrore di quei giorni, il silenzio dell’indifferenza e l’impossibilità, da parte di chi è sopravvissuto, di dimenticare e tornare a vivere un’esistenza normale.

Come sempre lo studio della storia e lo studio del proprio passato, stimolato come in questo caso dalla forza delle immagini cinematografiche, possono darci una mano a comprendere e superare le difficoltà e i pregiudizi del nostro vivere quotidiano.

Nel percorso personale di Julia, la ricerca, la scoperta e l’accettazione della verità sono indispensabili per alimentare la speranza di un futuro diverso, improntato alla condivisione di valori diversi dalla menzogna, dalla paura e dall’odio: questo messaggio di speranza si incarna nella figlia di Julia, una nuova, piccola Sara.

Rivivere gli orrori di cui l’uomo è stato capace, recuperare la nostra storia, la storia che è fatta dall’insieme di tante “storie” personali è il punto di partenza per superare i pregiudizi e le incomprensioni di oggi.

Ogni storia ha il diritto e il dovere di essere raccontata, altrimenti rischia di essere dimenticata e quando qualcosa viene dimenticato noi tutti ci allontaniamo dalla verità.

Francesco Diaferia, classe III D Scuola Santarella, a.s. 2019/2020

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